Quanto curiamo il marchio Made in Italy? Che frutti restituisce la nostra strategia nazionale?

Il Made in Italy è un grande brand globale che accompagna molti dei nostri prodotti sia in Italia che all’Estero. Tra tentativi di regolamentazione legislativa e statistiche sull’export il Made in Italy sembra tanto vivo quanto controverso

Gestire un marchio come “Made in Italy” non è facile. In un continuo braccio di ferro tra governi, Unione Europea e mercati è complicato trovare una strategia condivisa. Tuttavia il Made in Italy è l’esempio da manuale di un brand percepito e non (completamente) emanato. All’estero i consumatori vivono una cultura del Made in Italy anche maggiore di quanto possiamo percepire in patria.

Nel settore del food, ad esempio, la produzione di materie prime italiane è data per scontata, ma all’estero tali prodotti assumono un valore commerciale difficilmente quantificabile.

Made in Italy: gli ultimi dati

Quando si parla di impresa, però, è sempre necessario quantificare di che si sta parlando. I dati del 2019 hanno fornito un quadro molto interessante. In fase pre-pandemica di decelerazione dell’economia, i prodotti italiani sono stati comunque molto acquistati all’estero. Secondo Intesa Sanpaolo l’incremento dell’export rispetto all’analogo periodo precedente è dell’1,4%. Ciò si traduce in un rafforzamento dell’avanzo commerciale, arrivato a circa 57,6 miliardi di euro.

Altra faccia della medaglia è, per l’appunto, la mancanza di una regia comune. Il balzo del Made in Italy è comunque garantito a livello non uniforme. Sono pochi i settori e i distretti produttivi che contribuiscono alla maggior parte di tale risultato. Ad oggi, quindi, la produzione italiana all’estero è trainata dai top di settore, mentre per tanti altri i numeri sono meno positivi.

made in italy principali settori

Molto gettonati continuano ad essere i settori del food, della moda, del luxury e dei manufatti. Ad esempio, sempre secondo tali stime, a crescere in maniera invidiabile è il distretto produttivo toscano, trainato dalla pelletteria e dai calzaturifici. Di contraltare sono insoddisfacenti i numeri di settori come metalmeccanica o industria pesante.

Made in Italy: cosa c’è alla base della disorganizzazione?

Assistiamo quotidianamente a scontri tra le industrie, il governo italiano e l’Unione Europea. In linea di massima quest’ultimo attore tenta di difendere il totale delle industrie comunitarie, emanando norme più permissive sull’identificazione dell’origine di determinate materie prime. Il Governo Italiano spinge invece per riservare il marchio “Made in Italy” ad aziende che concentrano nel nostro paese l’intera filiera produttiva e distributiva. Dall’altra parte ci sono invece le imprese che non condividono molti degli strumenti legislativi pensati per tutelare la produzione nostrana, ma dall’altra parte lottano strenuamente per sanzionare i contraffattori di prodotti italiani all’estero.

Dai dati emerge quindi la necessità di adottare un quadro normativo chiaro e puntuale che sia condiviso da tutti gli attori in gioco. Partendo da questo presupposto bisognerebbe quindi spingere alcuni settori in particolare difficoltà, che potrebbero garantire export anche in situazioni difficili come la pandemia che la società globale sta affrontando.

È fondamentale avere una strategia di digitalizzazione

Stare al passo con i tempi è naturalmente fondamentale in ogni contesto produttivo. Se c’è una cosa in cui le aziende italiane peccano è proprio il stare al passo con i tempi, e quindi iniziare una necessaria transizione digitale. Mai come oggi per comunicare al mondo globalizzato è necessario interfacciarsi tramite strutture digitali.

È quindi necessario, di conseguenza, adeguare la propria catena produttiva e la propria comunicazione senza snaturare la componente artigianale e di qualità tanto apprezzata in patria e all’estero. Visto che la costruzione di nuove infrastrutture è quanto mai avanzata (si veda la corsa al 5G), adeguarsi è necessario per sopravvivere.

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